Vite donate: battezzati e inviati
Vite donate: battezzati e inviati
Ogni esperienza umana ha il suo inizio e la sua fine. Non sono questi due punti (o momenti) a determinare la qualità della vita umana, ma tutto ciò che si trova tra questi due opposti.
Tutti noi conosciamo le nostre origini, ma nessuno conosce la propria fine, ed è bene che questo rimanga custodito nel cuore di Dio. È Lui che ci accompagna durante tutto questo tempo, se noi abbiamo la docilità del cuore nel seguirlo; sarà ancora Lui che ci accoglierà nel suo regno di luce come servi fedeli al termine di questo pellegrinaggio terreno. Ecco perché il discepolo, diventato apostolo, non vive nella paura ma nell’affidamento perpetuo.
Ho avuto la Grazia della vita cristiana fin dall’inizio della mia esistenza. Non mi è stato difficile rispondere alla chiamata di lasciare tutto e seguire Cristo sulle strade del mondo. Ecco perché quasi 20 anni fa, sono stato inviato nelle Filippine per condividere la mia fede con questo popolo. Destinazione inusuale per un missionario, poiché la popolazione di questo Paese è già per la maggioranza cristiana cattolica. Nonostante questa verità, non mi sono mai sentito fuori posto. Ho cominciato ad amare questo popolo con i suoi pregi e le sue limitazioni. I pregi mi hanno aiutato davvero a crescere nella fede, mentre i difetti mi hanno sempre interrogato su come dovevo pormi come missionario di fronte alle esigenze di una emergenza di nuova evangelizzazione.
Le Filippine nel 2021 celebreranno i 500 anni di cristianesimo portato dai missionari spagnoli. Un anniversario impegnativo se guardato con gli occhi del tempo presente. Tempo di grazia che permette di guardare al passato con gratitudine e inquietudine; mentre ci chiede di riflettere sul presente con serenità e preoccupazione. Vivendo da vari anni con questo popolo e la sua cultura, sociale e religiosa, balza all’occhio in modo dirompente una fitta rete di contraddizioni tra il messaggio evangelico e la vita reale della gente cristiana. Questo fenomeno purtroppo è presente in tutte le società di antica cultura cristiana, quindi anche le Filippine sono “vittime” di questa globalizzazione religiosa. Questa situazione sociale e religiosa mi ha posto davvero molte domande su come dovesse essere l’azione di annuncio che mi veniva chiesta.
Per grazia sono stato accompagnato nei primi anni da “fratelli maggiori” che con molta pazienza e carità mi hanno introdotto nell’incontro e nella conoscenza di questa “giovane” Chiesa. Fin da subito ho avuto la possibilità di seguire una pastorale sacramentale ordinaria per le molteplici comunità sparse nel territorio parrocchiale. Era come andarli a trovare a casa loro, valorizzando la comunità locale. Questo avveniva anche per motivazioni economiche e di lontananza geografica dal centro. Seguire e organizzare queste comunità ha assorbito gran parte del mio tempo e delle mie giornate con la conseguente conoscenza capillare della gente e dei loro problemi di vita quotidiana. Francamente penso di essere stato aiutato più io da loro, che loro da me.
Nella vita quotidiana non c’era solo l’azione pastorale ordinaria per coloro che erano già “nell’ovile”, ma si poneva attenzione anche a quei gruppi di persone appartenenti alle comunità indigene native, chiamati comunemente Tribali perché appartenenti a varie tribù con identità proprie, seguite da loro usi e costumi sociali e religiosi.
In linea con queste esperienze di pastorale straordinaria, mi viene spontaneo ricordare delle figure di confratelli che si sono spesi totalmente per queste popolazioni “dimenticate” da tutti ma non da Dio.
Ricordo con gratitudine p. Angelo Biancat (morto nel 2005 per cancro a 68 anni), che mi introdusse nella sua pastorale con i tribali di etnia Subana nella provincia di Zamboanga del sud; p. Fausto Tentorio (ucciso nel 2011 a 59 anni) che per molti anni ha vissuto tra i Manobo dell’Arakan, diocesi di Kidapawsn, nella provincia di Cotabato; p. Peter Geremia, ancora attivo con i suoi 80 anni tra i tribali della diocesi di Kidapawan. Ognuno di loro ha saputo suscitare in me l’interesse per queste popolazioni isolate e marginalizzate, spesso usate e abusate dal potente di turno.
L’esperienza più lunga in termini di tempo ed intensità l’ho avuta con p. Fausto. Pur essendo lui nominalmente il parroco della comunità, lasciava a me il lavoro di pastorale ordinaria, occupandosi quasi interamente della pastorale per i tribali. In questo modo veniva a conoscenza della reale situazione umana, sociale, sanitaria, scolastica, religiosa, cercando strategie nuove per rispondere ad ogni esigenza ed emergenza. Di conseguenza a tutto questo suo lavoro di coscientizzazione, sensibilizzazione, applicazione dei fondamentali diritti umani, aiuto nelle basilari necessità quotidiane durato per più di 30 anni, ha sicuramente “pestato i piedi” a qualcuno che poi gli ha presentato il conto. Lo diceva lui stesso che quando vivi in determinate realtà, di pericoli se ne incontrano molti, anche al prezzo della vita stessa. Tanto che, il mattino del 17 ottobre 2011 è stato brutalmente ucciso alle porte di casa, mentre stava per salire in macchina. Ancora oggi non si conoscono i reali mandanti e motivazioni di questo assassinio. Di speculazioni se ne son fatte davvero tante.
Per chi rimane, nascono davvero tante domande legate all’impegno che coinvolge la propria vita. Tante perché destinate ad avere risposte evasive o inconclusive. Ma alla domanda fondamentale “se ne valeva la pena”, la risposta è e rimarrà sempre molto chiara: certo, ne valeva la pena! Anche per un’ora sola di bene fatto con gratuità, ne vale la pena.
Questo epilogo si deve contemplare fin dall’inizio dell’avventura missionaria, fin dal giorno del battesimo, anche quando ci dovesse essere richiesta la vita stessa per annunciare Cristo alle genti. Essere cristiani vuol dire essere missionari. Se non si vive questa dimensione quotidianamente, ognuno nella propria vocazione, ognuno nel proprio luogo, è necessario farsi una domanda che mette in discussione tutta la nostra vita cristiana: fino a dove, fino a quanto sono disposto a spingermi, a mettermi in gioco per annunciare Cristo a chi incontro nella mia vita? Quale coerenza cristiana sto vivendo per poter “attrarre” a Cristo più anime possibili?
Personalmente ringrazio il Signore per l’esperienza cristiana che mi ha donato di vivere fino ad oggi. Lo prego perché ci possano essere tanti altri che ascoltano e rispondono alla Sua chiamata per una vita realmente donata, spesa per il vangelo. Viviamo un tempo di profonda testimonianza cristiana, dove spesso viene richiesta la vita stessa. Papa Francesco ci sta aiutando a riscoprire queste nostre origini e responsabilità. Con la fiducia nella provvidenza divina, aiutiamo la Chiesa a purificarsi e a camminare orgogliosa, a testa alta, tra la gente del nostro tempo, annunciando che solo Cristo è la risposta alle nostre domande. Siamo battezzati e per questo inviati.
padre Giovanni Vettoretto, PIME