Restare insieme… nonostante la guerra
Restare insieme… nonostante la guerra
Il Burundi è un piccolo paese dell’Africa centrale, grande pressappoco come il Piemonte e la Liguria, con dieci milioni di abitanti. Ha preso la sua indipendenza dal Belgio, nel 1962 e da quel giorno, fino ad oggi, vive in situazione di guerra civile, con picchi più o meno tragici. L’Onu dice che in questi anni sono stati uccise oltre 500 mila persone. Causa, la lotta etnica.
In Burundi ci sono 2 etnie – i Tutzi 14% e gli Hutu 84%. E la violenza è una contro l’altra, con massacri, guerra ( 1993-2005 ), violenze di ogni genere, dittature, sparizioni, fuga dal Paese.
La Commissione Giustizia e Pace burundese, quest’anno ha parlato di 4.000 fosse comuni, scoperte nel periodo 1970-2018. Gli stati che aiutano il Paese sono stati messi fuori, o si sono ritirati, per attirare l’attenzione, le Ong anche, l’Onu è ridotta ai minimi.
Nessuno ne parla, perché la sopravvivenza del Paese è tenuta in piedi dalla Cina e dalla Russia e poi il Burundi non ha petrolio, oro, diamanti o coltan per far parlare il mondo.
È uno dei Paesi più poveri del mondo e nel 2020 ci saranno le ennesime elezioni guidate. Oggi in Burundi comandano gli hutu che sono al potere da 3 mandati di 5 anni, cose proibite dalla costituzione e la stessa costituzione è stata cancellata.
In questi anni è stato ucciso un presidente, un primo ministro, un nunzio apostolico, un arcivescovo, 40 seminaristi, 2 saveriani, 3 saveriane, volontari, sacerdoti locali e stranieri, suore, frati, i comboniani hanno lasciato per protesta il paese, negli anni 80 sono stati espulsi 600 occidentali in una decina d’anni… Solo per darvi qualche numero.
Io in questo paese ho vissuto 30 anni e mi sono guadagnato un’espulsione dal Governo, un premio internazionale, nel 2002, Raight Livelihood, o Nobel Alternativo, e un rientro veloce per minacce di morte.
Dall’81 all’85 sono stato in una parrocchia, lungo il lago, a Minago, con una comunità di 3 confratelli per cercare di chiudere i progetti e costruzioni in atto perché l’espulsione era già prevista. I confratelli precedenti erano stati espulsi. Poi è arrivata l’espulsione anche a me e sono ripiombato in Italia.
Ho lavorato allo Csam – Centro Saveriano Animazione Missionaria- a Parma e nel ‘90 l’espulsione mi è stata tolta e mi è stato chiesto dai confratelli in Burundi, ridotti all’osso, di rientrare perché c’era una “primavera” in arrivo: il vescovo di Bujumbura aveva chiesto ai saveriani di impegnarsi nei Quartieri Nord della capitale Bujumbura, con un Centro Giovanile per preparare i giovani ad entrare in società come persone di dialogo, di pace, che possano diventare i responsabili del futuro e trasformare dal di dentro il Paese. Perché – diceva lui-, avendo i burundesi la guerra nel cuore, non era possibile fare altro che far crescere delle generazioni in pace. Cose verissime. Vissute poi. Ripartenza in Burundi con altri 2 confratelli.
Siamo stati destinati a questo progetto, estremamente bello, innovativo, da sogno. Per due anni abbiamo vissuto insieme, nuova comunità, nei quartieri, abbiamo parlato, abbiamo tentato di capire la situazione, abbiamo tentato di inventare il ” Centre Jeunes Kamenge“. E’ stata un’operazione da Pentecoste. Saveriani, diocesi, giovani, nunziatura, politici, tutti eravamo dentro. Si è pensato di costruire un Centro, con solo locali di incontro e campi sportivi, in mezzo ai quartieri più strani della capitale, i Quartieri Nord, dove si voleva lavorare con giovani da 16 a 30 anni, di ogni etnia, religione, posizione sociale, paese, cultura, ragazzi e ragazze. Per scelta l’ingresso è gratis, perché per tutti e in 25 anni si sono iscritti in 51 mila. Cosa fare al Centro? Dare la possibilità di fare delle attività: qualsiasi, perché servono principalmente per abituarsi a vivere insieme: quindi sport, biblioteca, musica, lingue, audiovisivi, computer, dopo-scuola, taglio e cucito, sanità, arbitraggio, dialogo tra le religioni.
Il giovane, venendo al Centro, sceglie delle cose da fare o da imparare e frequenta i corsi, o gioca, e fa ginnastica. Ogni giorno una trentina di attività. Spinto a immagazzinare più cose possibili da imparare, perché il futuro non è bello nel Paese. E durante i tempi vuoti di scuola, di lavoro o per quelli che erano sulla strada, il Centro era un richiamo non indifferente.
Noi pensavamo che potevano venire al Centro 1.000- 2.000 giovani, invece nel primo mese abbiamo avuto 2.500 iscritti, ma poi è arrivata la guerra, che si è fissata nei quartieri stessi: tutzi, al potere contro hutu, i ribelli. E’ stato terribile. Morti ovunque. Con Medici Senza Frontiere, abbiamo aperto al Centro un ospedale da campo per i feriti di guerra. Sempre insieme, le 2 etnie. I primi 8 mesi, solo nei quartieri, sono state uccise 64.000 persone. Parecchie volte ho rischiato la vita, molti altri sono stati uccisi, giovani, collaboratori, amici. Ma il Centro non era mai stato toccato. Così i giovani potevano entrare per parlare tra loro e scaricarsi di tutti i loro problemi.
Dopo questo periodo i quartieri sono stati chiusi per eliminare uomini e giovani hutu e anche noi abbiamo dovuto partire, ma non abbiamo mai lasciato l’autorità sul Centro. Volevamo ritornare per stare con loro. Infatti dopo una settimana siamo rientrati, accompagnati da due militari graduati e dal nunzio. Abbiamo passato gli altri 13 anni di guerra in momenti di varie situazioni, ma con tanti giovani che sceglievano di compromettersi per questo progetto che parlava di pace e di vita. Dopo alcuni anni, i responsabili dei 6 quartieri ci hanno chiesto di entrare nei quartieri con dei progetti, per far vivere insieme anche gli adulti, i bambini e abbiamo aperto dei progetti: aids, pace, alfabetizzazione, sport, musica. Un cantiere immenso, un entusiasmo grandissimo. Frequentavamo con animazioni più di 120 scuole elementari e secondarie, 34 comunità protestanti, cattoliche e mussulmane e insieme si continua a fare tornei, concerti, corse sportive.
Tutto serve per abituarsi a vivere insieme. Molti volontari arrivano dall’estero, e il Centro è conosciuto nel Paese e all’estero e questa conoscenza ci portava a ricevere i finanziamenti necessari e continuano ancora oggi che il Centro è nelle mani della diocesi.
I periodi non erano sempre calmi. Io sono stato anche rapito e un giorno in prigione, ma temevano il Centro, perché aveva il potere sui giovani. Su YouTube trovate un’infinità di testimonianze, cliccando Marano Claudio, oppure Centro giovanile Kamenge, oppure Kamenge. L’idea di far vivere nella normalità i giovani e i quartieri, vivendo esperienze di pace e dialogo è stata l’idea vincente. I giovani, nel momento della ricerca del lavoro, entravano facilmente in progetti, nell’amministrazione, in posti dove dovevano partire dalle positività per il Paese. Oggi è più difficile perché con il potere attuale o sei con loro, o non sei riconosciuto.
Abbiamo aggiunto anche la ricostruzione e ci lavoriamo con 2500 giovani ogni anno. Durante le vacanze d’estate facciamo dei campi di lavoro per aiutare la popolazione a ricostruire la casa, distrutta della guerra o dai disastri climatici, casette di 6 x 8, con mattoni di fango, cotti al sole. Gruppi di giovani, di ogni diversità, vanno nei quartieri, ancora etnizzati, ad aiutare. Questo fa mettere insieme tanti modi di vivere: l’essere insieme, l’aiutarsi, non aspettare tutto dall’estero, il dialogo con gli altri, anche se diversi.
In questi ultimi anni, l’Onu ci ha regalato anche una radio, per trasmettere musica e messaggi di pace nei quartieri, una radio comunitaria. E’ stata ed è un’esperienza bellissima. Per tanti modi potrebbe essere utile anche per l’Italia, nel senso di mettere insieme i giovani, facendo le cose più svariate, per obbligarli a vivere insieme, a parlare tra loro. Il futuro passa solo attraverso loro, nel dialogo, nella pace e nel sogno.
Auguro anche a voi giovani in Italia un futuro di dialogo, pace e grandi sogni, per voi e per il mondo intero.
padre Claudio Marano