Una bambina di nome Speranza

Una bambina di nome Speranza

Ciao! Mi chiamo Sara e ho 26 anni. Vivo a Camalò, in provincia di Treviso e lavoro come educatrice. Nel 2016 sono partita insieme ad altre cinque persone per un’esperienza missionaria in Congo. In realtà tutto comincia nel 2015 quando ho conosciuto Casa Milaico – un centro di animazione missionaria ai piedi del Montello, in provincia di Treviso, in cui vivono laici e religiosi insieme. O meglio ho cominciato a frequentarla, perché di nome già la conoscevo, ma non sapevo molto bene che cosa facesse.

È stato Riccardo, che all’epoca viveva lì insieme alla moglie Chiara e ai tre figli, che un giorno mi ha detto che Milaico stava organizzando questo viaggio missionario in Africa e qualcosa è scattato. Era un’esperienza che avevo già pensato di fare e la proposta è arrivata al momento giusto, in un periodo in cui lo sentivo anche come bisogno e infatti ho risposto di sì praticamente subito.

Il mio percorso comincia quindi ad ottobre 2015 con il GEM, ovvero il gruppo Giovani E Missione. Dopo una preparazione fatta di incontri mensili da ottobre a luglio, siamo poi partiti ad agosto del 2016 per la Repubblica Democratica del Congo, in particolare per la capitale Kinshasa.

Qui siamo stati accolti per tre settimane nella missione dei padri della Consolata con Padre Santino. Per quasi un mese ci siamo immersi nella vita parrocchiale e del quartiere facendoci travolgere da quella che era la dinamica delle attività: i gruppi, il coro, le visite alle famiglie, dove abbiamo fatto esperienza di un’accoglienza incondizionata.

Le mattine avevamo un servizio: dovevamo andare in un ospedale che si trovava vicino alla missione, gestito dalle Suore Poverelle di Bergamo e prestare aiuto in vari settori: la casa di riposo, il dispensario e il reparto maternità.

La cosa che inizialmente ci ha spiazzati è che nessuno di noi aveva alcun tipo di competenza in campo medico, non sapevamo in che modo potessimo essere utili in un ospedale e che cosa potessimo fare concretamente. In effetti poi di concreto non abbiamo fatto grandi cose, ma siamo rimasti lì con le persone, facendo il possibile per dare una mano come potevamo.

Io sono stata quasi tutto il tempo nel reparto maternità, in particolare nel reparto dei nati prematuri quindi in situazioni di incertezza e difficoltà. La cosa importante era stare vicino alle mamme, aiutarle a pulire i bambini, fare loro compagnia, chiacchierare con loro, cercando di superare la difficoltà linguistica, in una parola: ESSERCI.

È stata un’esperienza bella e sorprendente. Sorprendente perché non avrei mai pensato di trovare lì speranza. Avevamo a che fare con bambini nati prematuri, in condizioni difficili, in un Paese dove il sistema sanitario è quello che è, ma ciò nonostante questi bambini nascevano, venivano accolti e amati, sopravvivevano: erano segni concreti di speranza.

In particolare mi ricordo l’episodio di una bambina nata al sesto mese di gravidanza. Era minuscola, grande come il palmo della mia mano. Nessuno le dava speranza di vita, si trattava solo di giorni, solo di capire quando ci avrebbe lasciato. Mi ricordo che un giorno mi hanno chiesto di tirarla fuori dall’incubatrice, ma io non ce l’ho fatta perché mi sembrava una cosa fragilissima, così fragile che si potesse rompere anche solo toccandola. Era bellissimo però il clima che si era creato intorno a quella bambina e a quella famiglia, perché tutte le altre mamme le davano attenzioni e vegliavano su di lei per darle forza stando vicino alla mamma, che si vedeva soffrire molto. La cosa brutta è che la mamma ha dovuto lasciare l’ospedale perché non poteva permettersi le cure per entrambe, ma solo per la piccola, essendo la sanità a pagamento.

Una volta tornate dall’Africa abbiamo tenuto i contatti con l’ospedale e la missione e un giorno è arrivata la notizia che la bambina ce l’aveva fatta. È rimasta in vita, è uscita dall’ospedale e stava crescendo. È stato davvero emozionante. In quel momento, in quel luogo, c’era speranza, c’era lo Spirito Santo.