Capitoli 4-5

I segni dei tempi in un mondo che cambia

(Suggeriamo i capitoli 4 e 5 per l’hashtag #costruisci)

Capitolo 4

Un altro segno dei tempi col quale dobbiamo misurarci è quello del fondamentalismo. Anche in questo caso vi è un legame con la globalizzazione e più in generale con gli effetti di una società in continua trasformazione. Si tratta di un tentativo particolarmente vigoroso, seducente e pericoloso nelle forme, di ritornare ai principi del passato, veri o presunti. I fautori del fondamentalismo sono convinti che si stava meglio una volta, quando la società era ingessata da un complesso di norme e punti fermi che regolavano la vita della gente. Quando cioè vi era la certezza dell’autorità e di una verità assoluta. Ma da dove viene questa parola, “fondamentalismo”? Il termine, oggi, è usato con grande disinvoltura, soprattutto dai giornalisti, in riferimento a certi movimenti religiosi nell’ambito del mondo islamico,  ma si dimentica che l’origine è rintracciabile, storicamente, in quella corrente di pensiero, nata all’interno della Chiesa battista, che intendeva opporsi al modernismo e al razionalismo teologici che si diffondevano fra i fedeli evangelici. Il termine “fondamentalismo” non aveva all’origine accezioni negative come accade oggi. Esso è legato alla pubblicazione, nel 1909, di una raccolta di dodici volumi di saggi intitolata “The Fundamentals”. I testi attaccavano le attività di filologia, storia, archeologia e critica, della scuola esegetica detta di “Alta critica”. Rivendicavano, al contrario, la volontà di riaffermare in modo dogmatico punti irrinunciabili della fede definiti “fundamentals”, fondamenti, e corrispondono anche all’affermazione della necessità di una fede facilmente comprensibile all’individuo. Questa rivendicazione aveva una prospettiva anche politico-sociale, con forte critica definibile “anti-intellettuale” o “anti-elìtes” (contro il pericolo di una società, o di una morale, degli avvocati e dei filosofi). Caratteristica del pensiero dei fondamentalisti, era la riaffermazione del valore letterale del testo della Bibbia. Successivamente, nel corso del Novecento, questo  termine si è diffuso nell’uso comune per identificare tutti quei punti di vista – correnti di pensiero e pratica nell’ambito religioso – che insistono sull’interpretazione letterale dei testi sacri delle grandi religioni, che hanno carattere di movimenti anti-modernisti all’interno di esse. Da rilevare che ciascuno di questi fondamentalismi ha le sue caratteristiche e spesso è in aperto conflitto con gli altri. Di fronte ad una questione così cruciale, e qua e là accesa da bagliori sempre più inquietanti, soprattutto dopo le tragiche vicende dell’11 Settembre (tra islam e cristianesimo), occorre scongiurare il pericolo di forzature o banalizzazioni indebite. Come ricorda Youssef M. Choueiri in un suo saggio sulla matrice islamica di questo fenomeno, il fondamentalismo “indica quella posizione intellettuale che pretende di derivare i principi politici da un testo ritenuto sacro”[1]. Più in generale potremmo dire che il fondamentalista, per presunzione o ignoranza, partendo dall’assunto che nell’esistenza umana esista un unico modello di riferimento, è fortemente convinto che la sua visione del mondo debba essere imposta ad ogni libera coscienza. In questa prospettiva, allora, il fondamentalismo non può certo essere circoscritto al mondo della Mezzaluna (in Medio Oriente e in Africa), essendo presente sotto varie etichette e con diverse sfumature in numerosi sistemi di credenza. Le uccisioni di cristiani perpetrate in Burkina Faso, come anche certa intransigenza nell’ambito di alcune sette cristiane, tendono ad una concezione ottusa dell’esistenza, assoggettando ogni alterità, fino quasi a soffocarne, consapevolmente o più spesso inconsapevolmente, ogni dimensione che parta da paradigmi differenti. Occorre pertanto sorvegliare la linea di demarcazione, sfumata o subdola, di certa comunicazione che vorrebbe sempre e comunque semplificare realtà complesse attraverso spettacolarizzazioni fuorvianti o enfatizzazioni eccessive. Per fortuna, in ogni tradizione religiosa, vi sono credenti attenti e lungimiranti a cui va tutta la nostra stima. Amos Luzzato, ad esempio, già presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ha dato prova di quella libertà di spirito e onestà intellettuale che dovrebbe sancire il dialogo interreligioso, affermando coraggiosamente che “non tutti i musulmani sono terroristi, non tutti gli americani sono imperialisti, non tutti i laici disconoscono i principi altrui, non tutti i cattolici sono impositori della loro fede, non tutti gli Ebrei sono ricchi o straccioni, torturatori dei Palestinesi o vittime di bombe umane, né tutti i Palestinesi sono occulti seminatori di morte”[2]. Sergio Zavoli, uno dei più celebri giornalisti italiani, introducendo questo virgolettato di Luzzato, da attento analista del palcoscenico della storia contemporanea, osserva quanto importante sia scongiurare la radicalizzazione del confronto tra Oriente e Occidente, affermando che “aprirsi a ciò che pensano e sentono gli altri non solo è augurabile ma è anche necessario, se non vorremmo parlarne, nella solitudine, con sommarietà e arroganza reciproche”[3]. Anche perché, di questo passo, come rileva sempre Luzzato, “finiremmo col trovarci sull’orlo di un baratro che stiamo scavando con le nostre stesse mani”[4]. D’altronde, avvertiamo un po’ tutti che spesso le forzature sono a trecentosessanta gradi e vanno ben oltre la sfera religiosa, riguardando le stesse civiltà e culture attraverso atteggiamenti impositivi che vogliono l’omologazione a tutti i costi, contrariamente a quanto si vorrebbe far credere. Le differenze possono convivere anche perché l’accoglienza dello straniero, come insegna il Vangelo, si traduce nell’abbattimento di ogni barriera, muro e divisione. Purtroppo, dobbiamo prendere atto che la disinformazione è tale per cui, nell’immaginario collettivo, quando si parla dei musulmani, pare che siano tutti terroristi o kamikaze. Ma non è vero! Quanti intellettuali del mondo arabo sono stati i primi ad opporsi con coraggio e povertà di mezzi contro ogni forma discriminazione, avvertendo la necessità di una lettura critica della storia islamica in netto contrasto con i fautori del “jihad” o di qualsiasi dittatura! È emblematico il pensiero dello scrittore egiziano Sayyed al-Qimani che ha difeso strenuamente il razionalismo, affermando che esso è patrimonio della tradizione islamica – riferendosi ad esempio al pensiero del filosofo Averroè – ma poi “silenziato” dai tradizionalisti fautori della sharìa, la legge islamica[5]. Un altro intellettuale che ha invocato il rinnovamento è stato il suo connazionale Khalil Abd al-Karim che ha presentato la propria lettura storica come alternativa alla visione fondamentalista degli estremisti[6]. Per non parlare dei fatti della quotidianità raccontati dalla letteratura e dal cinema egiziano: basti pensare al romanzo del premio Nobel Nagib Mahfuz “Karnak” o al film “Siamo quelli dell’autobus” sulla falsificazione delle accuse da parte della polizia per carrierismo. Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, diceva che l’Islam contemporaneo è nel suo XIII / XIV secolo. Se guardiamo alla storia europea di quel tempo, cioè del XIII / XIV secolo europeo, scopriremo che per il Vecchio Continente non era ancora iniziata la riforma protestante. Secondo Shari’ati, per superare il Medio Evo islamico, i musulmani non possono pensare di saltare a piè pari cinque, sei secoli, arrivando di getto alla cultura moderna. “Dobbiamo riformare l’Islam – scriveva l’intellettuale iraniano – rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medio Evo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale” [7]. Le parole e la vita di Shari’ati, morto ufficialmente per arresto cardiaco in Inghilterra nel giugno del 1977 – anche se sono in molti a ritenere che sia stato eliminato dalla polizia segreta dell’allora Scià di Persia – indicano chiaramente il percorso che occorre seguire per sostenere le piattaforme democratiche nei Paesi della Mezzaluna. Una responsabilità di cui deve farsi interprete soprattutto l’Europa se vuole essere coerente con i propri principi. Proseguendo la nostra riflessione sul fondamentalismo e tenendo soprattutto conto delle finalità di questo saggio, c’è da considerare che il termine viene oggi utilizzato in senso lato anche per indicare un atteggiamento acritico e dogmatico nei confronti di testi o teorie non necessariamente religiose, e i comportamenti che ne derivano. In economia, ad esempio, i critici del capitalismo liberale accusano talvolta di “fondamentalismo” i sostenitori delle teorie secondo le quali il mercato dovrebbe essere, secondo loro, l’unico regolatore della vita sociale, sottintendendo che questo principio sia affermato in modo dogmatico. In politica, il neoconservatorismo è un’altra reazione alle paurose incertezze del nostro tempo, per cui si sostiene una visione manichea della realtà: da una parte ci sono i buoni, dall’altra i cattivi, per cui i nemici vanno spazzati via, soprattutto se sostengono iniziative antagoniste e bellicose. In campo religioso, alcuni gruppi religiosi accusano di “fondamentalismo laicista” le posizioni anticlericali dei loro avversari, ritenendoli incapaci di accettare deroghe rispetto a una visione tradizionale della laicità. A questo proposito, un’altra forma di fondamentalismo a livello  scientifico e culturale, è quella dello scientismo: una concezione del sapere che considera valida soltanto la conoscenza scientifica, che nel XIX secolo è servita come supporto alle ideologie evoluzioniste e materialiste, confluite poi nella dottrina marxista del “socialismo reale”[8], in contemporanea – è bene rammentarlo – a quanto sviluppatosi sul piano produttivo, con la rivoluzione industriale, e su quello economico, con il capitalismo. Ingenuità e presunzione hanno portato l’uomo a credere che il progresso della scienza, della tecnica e più in generale della ragione, avrebbero potuto risolvere da soli i problemi della gente, al punto di fare a meno della religione, ritenuta da alcuni una sorta di optional, quasi superstizione. E’ questa la concezione secolarista: non è più necessario alcun riferimento alla Trascendenza, essendo già tutto dato e possibile sul piano umano. Gradualmente, però, nel corso del Novecento questa visione è stata scossa sia dalle due Grandi Guerre mondiali, che dalla crescente divaricazione tra ricchi e poveri con l’avvento della globalizzazione liberista. Il crollo prima del materialismo ideologico, quello delle nazioni comuniste, e la crisi poi, in questo primissimo segmento del Terzo Millennio, del sistema capitalistico, ha determinato un forte scetticismo su chiunque ancora oggi si azzardi a proporre schemi ideologici per salvare il mondo. E cosa dire del capovolgimento degli equilibri geostrategici per cui le vecchie potenze occidentali sono state scavalcate dai Paesi emergenti come la Cina? Questo gigante è riuscito addirittura a realizzare una coincidenza tra gli estremi, unificando la dottrina del libero mercato con un regime di governo comunista. Ne è scaturito un sistema oligarchico, decisamente antidemocratico che, sfruttando la manodopera a basso costo, ha come obiettivo la crescita esponenziale delle attività produttive.  Una cosa è certa: in questa ultima striscia della Storia, alcune componenti delle grandi religioni, come il cristianesimo e l’islam, con modalità certamente diverse, si sono gradualmente chiuse a riccio, affermando logiche fortemente identitarie. Nel caso delle Chiese cristiane, alcune di queste hanno subito gli influssi del secolarismo per cui o hanno patito una consistente perdita di fedeli (i quali, non trovando in esse delle risposte ai quesiti della vita, si sono rivolti altrove), o si sono aggrappate ad un’autorità assoluta in grado di fornire verità certe. Il comune denominatore che lega queste due tipologie è comunque l’insicurezza. “La maggior parte della gente – scrive  Albert Nolan – vive in uno stato di disperazione repressa, cercando qualche maniera per distrarsi dalle dure realtà del nostro tempo”[9]. Dello stesso pensiero è Joanna Macy, secondo cui “il terrore del futuro sta sulla soglia della coscienza, troppo profondo per ricevere un nome e troppo spaventoso da affrontare”[10]. Quelli che hanno mollato la religione sono andati disperatamente alla ricerca di qualcosa d’inebriante che, almeno in parte, potesse soddisfare le loro istanze interiori sul piano emozionale. Qualcuno si è rivolto agli alcolici o alle droghe. Altri si sono tolti la vita suicidandosi. Altri ancora hanno trovato una parvenza di sicurezza nella ricchezza e nell’accumulo di beni. Qualcuno, comprensibilmente, è ricorso allo sport, al fitness, ai centri benessere, alle esperienze esoteriche tipiche di altre culture non occidentali. Una reazione molto decisa  alle incertezze che la vita riserva nel nostro mondo, è il tentativo di tornare al passato, il fondamentalismo[11]. Volendo comunque tentare di scavare nell’intimo del sentimento fondamentalista, si scopre che la vera ragione è determinata dall’incapacità dell’individuo o della comunità a coniugare gli ideali con la vita, lo spirito con l’esistenza, gli ideali con la storia. Questa divaricazione è tale che genera un dualismo tra anima e corpo, letteralmente privo di significato per la gente del nostro tempo.  Forse, la prima vera risposta che andrebbe data ai fondamentalisti, è quella che troviamo nel vangelo apocrifo di Tommaso, in cui Gesù dice: “Quelli che sanno tutto, ma sono carenti dentro, non conoscono nulla” (67). I fondamentalisti, senza rendersene conto, sono ridicoli perché non hanno assolutamente coscienza del proprio limite e passano sulle altrui convinzioni e dubbi come uno schiacciasassi. “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?”[12], dice Gesù nel Vangelo di Luca. La seconda considerazione riguarda la visione della storia. Questi signori si preoccupano della fedeltà col passato, senza avere il coraggio di ripensare certe loro dottrine, imponendo, come leggiamo nel Vangelo di Matteo, “pesanti fardelli (…) sulle spalle della gente”, ma senza “muoverli neppure con un dito”[13].  Chiudendo le finestre della mente al divenire della storia, i fondamentalisti non si fanno domande e minacciando l’ “Anathema sit” per chiunque. Nella vita spirituale autentica, invece,  si può crescere solo se si arriva a porre degli interrogativi esistenziali sul proprio essere e sul senso stesso della propria vita. Non a caso la grande Teresa d’Avila scriveva nel Castello Interiore: “Non so se mi sono spiegata bene – questa conoscenza di noi stessi, infatti, è tanto importante che non vorrei vi fosse in ciò mia rilassatezza, anche se foste già elevate fino ai cieli, perché fino a quando saremo su questa terra non c’è cosa che ci sia più necessaria dell’umiltà”.[14]

Capitolo 5

 Sul palcoscenico della Storia contemporanea si avverte un bisogno indicibile di pace!
Com’è noto, alla luce delle Sacre Scritture, la Pace è  la “manifestazione” stessa di Dio. D’altronde, come cristiani, noi crediamo con Paolo che : «Cristo è la nostra Pace. Egli ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2, 14). Eppure – triste doverlo ammettere – mai come oggi la parola “guerra” – che è l’esatto opposto di Pace – è sulla bocca di tutti: piccoli e grandi. Viene ripetuta con disinvoltura, sì, come se fosse il toccasana ai mali del mondo. I missionari e le missionarie che svolgono il loro apostolato nelle Giovani Chiese, vivendo dunque in quelle periferie del nostro povero mondo dove la sofferenza appartiene alla quotidianità  della vita, credono che la guerra sia “peccato” e che dunque si tratti di una “bestemmia”: “contro Dio e contro l’uomo”. E per questo, con la loro testimonianza di vita non si stancheranno mai di denunciare l’inganno. Non per pietismo o pacifismo che dir si voglia. Infatti il loro Vangelo, è il Vangelo della Pace. Stiamo parlando di uomini e di donne che rappresentano una pacifica forza d’interposizione tra gli opposti schieramenti, in quelle terre dove ancora oggi scorre sangue innocente. Questi “caschi blu di Dio” conoscono gli effetti devastanti delle mine antiuomo e di tanti altri micidiali ordigni che seminano morte e distruzione. Essi sono giunti alla medesima conclusione di Carlo Levi,  grande scrittore e saggista torinese: «che la sola ragione della guerra è di non aver ragione (ché, dove è ragione, non vi è guerra); che le guerre vere ed efficaci sono soltanto le guerre ingiuste; e che le vittime innocenti sono le più utili e di odor soave al nutrimento degli dèi».  D’altra parte, la testimonianza di Gesù, così come viene riferita dai quattro Vangeli, parla chiaro. Se il Nazareno avesse voluto diventare un leader rivoluzionario contro la dominazione romana avrebbe potuto farlo. Il gruppo degli zeloti non aspettava altro. Erano guerriglieri e credevano nella lotta armata contro Roma. Invece il Messia scelse il cammino della croce dal quale scaturì il dono della resurrezione e la salvezza per tutti: per ogni uomo e donna di buona volontà. «La Parola di Cristo è la sola che possa dare una risposta agli interrogativi che si agitano nel nostro animo» scrisse padre Bartolomeo Sorge in un suo editoriale pubblicato alcuni anni fa su “Popoli”, allora prestigioso mensile missionario della Compagnia di Gesù. «Il credente sa che il male e la morte non hanno l’ultima parola. Ciò significa che mentre i terroristi e quanti li hanno coperti vanno severamente puniti e condannati per i loro crimini orrendi, nello stesso tempo però anche noi occidentali ci dobbiamo interrogare sulle nostre responsabilità in questa esplosione irrazionale di terrorismo. Il nostro egoismo, il nostro razzismo, la nostra chiusura all’altro sono radici che alimentano l’odio. Perciò, solo attraverso il leale riconoscimento delle responsabilità degli uni e degli altri sarà possibile riallacciare il dialogo e tornare a stringerci la mano. Sì, perché l’umanità, oltre che di giustizia, ha bisogno di amore e di perdono». (B. Sorge, Popoli, novembre 2001).

Parole davvero illuminate, queste di padre Sorge, che diventano intelligibili solo attraverso il filtro della fede. A distanza di trent’anni, risuonano ancora le parole di Giovanni Paolo II che durante la prima crisi del Golfo disse senza mezzi termini «La guerra è un’avventura senza ritorno». Anche perché le responsabilità occidentali nelle tragedie del Sud del mondo sono colossali. I talebani, come altri movimenti integralisti, per anni sono stati al soldo di coloro che oggi invocano vendetta. E cosa dire delle guerre africane in cui sono evidentissimi gli interessi economici di numerose potenze straniere? Dalla Repubblica Democratica del Congo alla Somalia, dal Sud Sudan alla Repubblica Centrafricana, dal darfur al Nord della Nigeria…, gli appetiti stranieri rappresentano un grave fattore d’instabilità. D’altronde, «dove non passano le merci passano gli eserciti», scriveva saggiamente nell’800 un grande economista francese, Claude Frédéric Bastiat. Lungi da ogni retorica, il tema della Pace è fondamentale perché riguarda il Bene Comune dei popoli. Lo ha compreso la Chiesa che, soprattutto a partire dal Novecento, ha svolto un ruolo profetico. Ad esempio, la questione del disarmo e delle psicosi belliche inerenti la corsa agli armamenti, dopo i noti ammonimenti di Benedetto XV e Pio XI, è apparsa chiaramente nel magistero di Pio XII nel 1941 e richiamata da ogni Pontefice fino a papa Francesco. Tale indirizzo si può sintetizzare in una richiesta di disarmo integrale connessa all’inumanità delle guerre e all’esigenza di dedicare più risorse per lo sviluppo dei popoli, opzione prioritaria a livello politico ed etico. Al magistero è corrisposta un’azione diplomatica costante della Santa Sede, impegnata da decenni in molteplici iniziative di pacificazione in tutte le sedi delle Istituzioni Internazionali e nella promozione delle convenzioni internazionali a favore del disarmo e dell’aiuto ai popoli sottosviluppati o impoveriti dai conflitti. A queste autorevoli azioni si sono sempre aggiunte altre iniziative e una vasta pubblicistica di movimenti e comunità ecclesiali di tante nazioni per la diffusione della pratica “evangelica” della nonviolenza e per l’espansione degli aiuti umanitari e dei piani di sviluppo. Ma proviamo ora a fotografare la realtà sul campo. L’antica locuzione romana: “Si vis pacem para bellum”, è purtroppo ancora oggi professata da molti leader internazionali.  La proliferazione di armi e il loro commercio illegale rappresentano fenomeni inquietanti, dalla valenza planetaria. È bene rammentare che, nonostante gli effetti della crisi che ha colpito le piazze finanziare di mezzo mondo, l’industria bellica mondiale continua ad essere l’unica a non temere alcuna forma di recessione. Basti pensare che gli ultimi dati dell’Istituto di ricerca internazionale sulla pace Spiri di Stoccolma registrano a livello globale un +2,6% del prodotto interno lordo mondiale nel 2018 (rispetto all’anno precedente) per un totale di 1.822 miliardi di dollari di spesa stimati per armi di ogni genere. La potenza di fuoco raggiunge livelli stratosferici e i campioni dei superarsenali sono Stati Uniti, Cina, Arabia Saudita, India e Francia. Per la prima volta la Russia esce dalla top 5 e incassa la sesta posizione, seguita da Gran Bretagna, numero 7 e Germania, ottava. L’Italia si aggiudica, l’ 11esima posizione. Da questo punto di vista, come scriveva don Tonino Bello, durante la sua presidenza italiana di Pax Christi: “La pace non è il premio favoloso di una lotteria che si può vincere col misero prezzo di un solo biglietto. Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime, di incomprensione e di sangue. La pace è il nuovo martirio a cui oggi la Chiesa viene chiamata…”. Ne è stato consapevole papa Benedetto XVI che, in continuità con l’insegnamento dei suoi predecessori, lanciò nell’Angelus del primo giorno del 2010 un messaggio toccante “alle coscienze di quanti fanno parte di gruppi armati di qualunque tipo. A tutti e a ciascuno dico: fermatevi, riflettete, e abbandonate la via della violenza!” In effetti, la posta in gioco è alta! È una sfida pastorale il fatto che a volte, nelle nostre stesse comunità, trova acritica accoglienza la giustificazione della guerra e della violenza, della legittima difesa armata e della ingerenza umanitaria con gli eserciti, mentre non è altrettanto presente l’attenzione per la difesa popolare nonviolenta, la passione per la verità e i concreti gesti di amore che danno prospettive a un mondo nuovo e possibile, secondo le parole dei Profeti. Il cristiano non distoglie il volto dalla brutalità dell’oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole “nemico” perché altri lo hanno definito come tale. I sentieri di Pace segnati in questi anni da alcune chiese locali italiane (per esempio a Novara e Vicenza) rispetto alla cultura della Pace costituiscono un motivo di speranza.

Occorre comunque, alla luce delle suggestioni del Magistero, progettare itinerari specifici di formazione teologica, morale, spirituale alla pace che accompagnino adeguate scelte di denuncia, di rinuncia e annuncio per una nuova civiltà dell’amore. Nella consapevolezza che, a differenza dei nostri antenati, crediamo che “Si vis pacem para pacem”. A quanto detto finora, è bene aggiungere una considerazione sul deficit di conoscenza rispetto alle aree di conflitto nel Sud del mondo, da parte dell’opinione pubblica internazionale. Dobbiamo tenere presente che il sistema mediatico planetario – facendo la media tra società moderne e altre arretrate – comunica appena il 20% delle notizie che tutti saremmo tenuti a conoscere. Lo constata con grande amarezza Sergio Zavoli (Cf. La Questione, eclissi di Dio o della Storia?, Mondadori, p. 218), citando fonti statunitensi. Purtroppo la mercificazione a cui è sottoposto l’intero comparto massmediale, il clientelismo imposto da alcuni potentati del sistema informativo, e l’emissione affannosa di notizie resa necessaria dalle regole della comunicazione in tempo reale, rappresentano un forte limite nel raccontare la cronaca delle cosiddette “guerre dimenticate” e nel diffondere la corretta visione ecclesiale sul tema della Pace. Un impegno, questo, è bene rammentarlo, assunto in questi anni coraggiosamente dalla stampa missionaria nel nostro Paese che si è strenuamente impegnata nel “dare voce a chi non ha voce”. Questo, in fondo, è lo spirito che dovrebbe animare ogni cronista attento alle sfide della mondialità e della pacifica coesistenza tra le nazioni. Uno spirito incomprensibile per coloro che considerano l’editoria null’altro che un supermercato dell’informazione, ma pur sempre uno spirito indispensabile nel laborioso processo di comprensione e dialogo tra le culture. Parafrasando Martin Luther King, «non dobbiamo avere paura delle parole dei malvagi, ma del silenzio degli onesti». A questo punto, è doveroso, come credenti, guardare al futuro con speranza, facendo tesoro della profezia di Isaia che recita: «Delle loro spade forgeranno vomeri d’aratro, e delle loro lance, roncole; una nazione non leverà più la spada contro un’altra, e non impareranno più la guerra» (2, 4). Questo, naturalmente, esige un impegno coraggioso, un’assunzione di responsabilità in linea con i ripetuti e accorati appelli di papa Francesco per la Pace. In particolare occorre riflette su quanto ha detto, il giorno di pasqua del 2019. Un appello contro le guerre nel mondo mentre, ancora oggi, attorno a Tripoli si continua a combattere. «Esorto le parti interessate a scegliere il dialogo piuttosto che la sopraffazione, evitando che si riaprano le ferite di un decennio di conflitti ed instabilità politica» ha continuato il pontefice, leggendo il testo preparato per la tradizionale benedizione Urbi et Orbi che fa seguito alla solenne messa in piazza San Pietro davanti a 60 mila persone.

L’elenco delle nazioni teatro di instabilità, guerre, persecuzioni, sangue è lungo. Ognuna ha trovato spazio nel pensiero pasquale. Il Venezuela, il Nicaragua, il Sud Sudan, lo Yemen, la Palestina, la Siria, l’Iraq, il Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria e Camerun e, nel cuore dell’ Europa, non può non essere messa in secondo piano l’Ucraina, puntualmente sottoposta a tensioni e violenze da parte della Russia. Sovviene, quasi istintivamente, il celebre dileggio di sant’Agostino, nel De Civitate Dei dove si parla di un pirata che un giorno disse ad Alessandro Magno: «Per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra, anch’io infesto la terra. Ma poiché io lo faccio con una barca insignificante mi chiamano malfattore, poiché tu lo fai con una flotta eccezionale ti chiamano imperatore» (IV, 4). Il messaggio è chiaro e stigmatizza una verità sacrosanta troppe volte misconosciuta dai Grandi della Terra cioè che, in ogni azione umana, se non è presente l’idea della giustizia, non c’è alcuna differenza tra l’opera di un malfattore e quella di un presunto benefattore.  In altre parole, la possibilità di fare cose buone e vivere in pace è nulla senza che vi sia un deciso anelito per la giustizia. Ecco che allora, per ogni credente, è davvero importante fare tesoro dell’insegnamento agostiniano, nella consapevolezza però, come afferma lo stesso vescovo d’Ippona, che «nessuno può liberamente compiere il bene che vuole fare, né può liberamente evitare il male che non vuole fare, se non per l’attrattiva della grazia di Cristo».

[1] Cfr., Youssef M. Choueiri, Islamic Fundamentalism: The Story of Islamist Movements Continuum, London and New York 2010.
[2] Sergio Zavoli, La Questione, Mondadori, Milano 2007,  p. 217 .
[3] Sergio Zavoli, op. cit. Il corsivo è  mio.
[4] Ibid.
[5] Giuseppe Scattolin, Islam nella Globalizzazione, Emi, Bologna 2004, p. 111 ss.
[6]  Ibid.
[7] Riccardo Cristiano, Tra lo Scià e Khomeini – Alì Sharia’ti, un’utopia soppressa, Edizioni Jouvence, Roma 2005.
[8] Per comprendere la genesi di questo tipo di fondamentalismo,  dobbiamo tornare indietro nel tempo, all’epoca dei Lumi con l’accettazione totale del  modello meccanicista elaborato a partire da Isaac Newton. La piena fiducia accordata alla  ragione e alla teoria dell’evoluzione di Charles Darwin (1859), ha portato ad una concezione evoluzionista,  perciò lineare, del progresso umano: progresso, da quel momento in poi, ritenuto possibile grazie alle scienze, a cui guardare con speranza.
[9] Albert Nolan, Jesus Today, A Spirituality of Radical Freedom, Orbis Books, Maryknoll, New York, 2006,  p. 15.
[10] Joanna Macy, World as Lover, World as Self, Parallax Press, Berkeley, 1991,  p.15.
[11] Cfr. Albert Nolan, op. cit.,  p. 16.
[12] Lc  6, 41.
[13] Mt 23, 4.
[14] Santa Teresa D’Avila, Il Castello Interiore,  2, 9.