Romero
Mons. Oscar Romero: da Santo de America a Santo dei cieli
Nel Concistoro del 19 maggio scorso Papa Francesco ha annunciato la data di canonizzazione di due grandi uomini di Dio: Paolo VI e Mons. Oscar Romero.
La causa di beatificazione di Romero fu aperta nel 1997, a 17 anni dalla sua uccisione, ma solo con l’arrivo di papa Francesco si è sbloccata fino a giungere, il 23 maggio 2015, alla celebrazione della beatificazione in una San Salvador gremita della sua gente. Ed il processo di santificazione è continuato senza più fermarsi. Così il 14 ottobre prossimo sarà grande festa in cielo per l’elevazione agli altari dei santi del vescovo salvadoregno, ucciso in odio alla fede il 24 marzo 1980.
Mons. Oscar A. Romero
(Ciudad Barrios, 15 agosto 1917 – San Salvador, 24 marzo 1980)
Mentre celebrava l’eucarestia nella piccola cappella dell’hospedalito un sicario colpì al cuore, uccidendolo con un solo proiettile, l’arcivescovo di San Salvador. Monsignor Oscar Arnulfo Romero morì alle 18:26 di lunedì 24 marzo 1980.
Non fu un martire che cercava la morte violenta, ma l’accettò, non sfuggendo al suo destino. Non fu un esaltato, ma un profeta; aprì gli occhi sulla realtà che lo circondava e fece vivere la Chiesa al fianco di chi aveva bisogno, di chi lottava per affrancarsi da repressioni, sfruttamenti…
Fu la spalla su cui piansero le madri delle centinaia di desaparecidos, giovani fatti sparire, perché considerati pericolosi dal governo ultrareazionario salvadoregno. Fu il confessore di tanti campesinos che protestavano contro lo strapotere e gli sfruttamenti subiti da parte di una decina di famiglie che si spartivano la proprietà terriera di tutto lo stato. Fu la guida di giovani parroci e religiosi che esercitavano il loro ministero sostenendo gli ultimi. Fu il fautore della cosiddetta teologia dell’accompagnamento: per lui compito di un sacerdote è quello di camminare accanto a chi ha bisogno. Parlava spesso dei poveri, ma è facile immaginare che per povertà intendesse qualcosa di molto più ampio, rispetto alla mancanza di possibilità economiche.
Eppure era considerato un sacerdote reazionario, quasi incapace di dare problemi all’oligarchia al governo. Forse proprio per questo fu scelto quale arcivescovo della capitale, ma i suoi occhi non potevano non vedere le infinite sofferenze del suo Paese.
Fece tante scelte coraggiose. Lasciò il ricco palazzo del vescovado e andò ad abitare alla Divina Provvidencia, un luogo di ricovero per malati terminali di cancro gestito dalle suore carmelitane e chiamato da tutti l’hospedalito. Ad Aguilares i militari avevano occupato la chiesa per sedare una manifestazione antigovernativa. Lui si recò in fretta in quel luogo, entrò in chiesa prese l’ostia consacrata dal tabernacolo profanato e improvvisò una processione col Santissimo. Inviò una lettera all’allora presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, che aveva inviato militari e denaro in Salvador con la giustificazione ufficiale di garantire i diritti umani. Lo accusò, così esplicitamente, di agire solo per salvaguardare interessi statunitensi.
Era un uomo non molto alto di statura, portava gli occhiali da vista e una tunica bianca. Le sue parole erano diffuse in tutto il Paese dalla radio diocesana e tutti si fermavano in silenzio ad ascoltare le sue interminabili omelie. Ancora oggi quelle parole sono di una attualità sconvolgente. Le sue profezie affondano le proprie radici direttamente nel Vangelo e lui fu davvero Vangelo vivente.
Riportiamo alcuni stralci delle sue omelie o dei suoi discorsi, per comprendere meglio il suo spirito di padre e pastore del popolo salvadoregno.
Ognuno ha le sue radici. Io sono nato in una famiglia molto povera. Ho sofferto la fame, so cosa significa lavorare da bambino. Da quando entrai in seminario e iniziai i miei studi fino a quando mi mandarono a Roma a finirli, passai anni e anni tra i libri dimenticandomi delle mie origini. Mi feci un altro mondo. Poi tornai in El Salvador e mi diedero l’incarico di segretario del vescovo di San Miguel. Ventitré anni di parroco lì, ancora immerso nelle carte. E quando mi portarono a San Salvador come vescovo ausiliare, caddi nelle mani dell’Opus Dei e lì rimasi… Poi mi mandarono a Santiago de Maria e lì mi scontrai di nuovo con la miseria: con quei bambini che morivano solo per l’acqua che bevevano, con quei contadini che faticavano duramente per ore e ore… Sa, il carbone che è stato bragia, un piccolo soffio e prende fuoco! E non fu roba da poco quello che successe quando arrivò all’arcivescovado Padre Grande. Lei sa quanto io lo stimassi. Quando io vidi Rutilio morto pensai: se lo hanno ammazzato per quello che faceva, tocca a me camminare per la sua stessa strada… Cambiai, sì, però fu anche un ritorno.
(confidenza di Oscar Romero al p. Cesar Jerez, superiore gesuita dell’UCA, passeggiando per via della Conciliazione a Roma)
Tra gli eventi di questa settimana, che sono certo molti, posso mettere in risalto con un senso di gratitudine la celebrazione del mio compleanno, in cui ho compreso ancora una volta che la mia vita non appartiene a me stesso, ma a voi.
(omelia del 21 agosto 1977)
Perché vediate qual è il mio compito e come lo svolgo: studio la Parola di Dio che si leggerà la domenica, mi guardo intorno, guardo il mio popolo, lo illumino con questa Parola e traggo una sintesi per potergliela trasmettere, e rendere – questo popolo – luce del mondo, perché si lasci guidare da criterio, non dalle idolatrie terrene. E per questo, naturalmente, gli idoli della terra avvertono un disturbo in questa parola, e ad essi interesserebbe molto che la destituissero, che la mettessero a tacere, che la uccidessero.
(omelia del 20 agosto 1978)
Vorrei chiarire un punto. E’ stato dato un discreto eco a una notizia di minacce di morte alla mia persona… Voglio assicurarvi, e vi chiedo preghiere per essere fedele a questa promessa, che non abbandonerò il mio popolo, ma correrò con lui tutti i rischi che il mio ministero esige da me.
(omelia dell’11 novembre 1979)
Come pastore, sento di avere un dovere nei confronti delle organizzazioni popolari. Anche quando esse diffidano di me, è mio dovere difendere il loro diritto di organizzazione, appoggiare tutto ciò che di giusto vi è nelle loro rivendicazioni. Ma così voglio anche conservare la mia autonomia per criticare tutti i loro abusi organizzativi, per denunciare tutto ciò che ormai significa un’idolatria dell’organizzazione, e chiamarli invece ad un dialogo di ricerca comune.
(omelia del 16 dicembre 1979)
Questo è il pensiero fondamentale della mia predicazione: nulla mi preme quanto la vita umana. E’ qualcosa di così serio e così profondo, più della violenza di qualsiasi altro diritto umano, perché è vita dei figli di Dio e perché questo sangue non fa che negare l’amore, destare nuovo odio, rendere impossibile la riconciliazione e la pace. Ciò di cui oggi si ha maggior bisogno qui è un altolà alla repressione!
(omelia del 16 marzo 1980)
So bene che molti si scandalizzano di queste parole e vogliono accusarmi di aver abbandonato la predicazione del Vangelo per intromettermi in politica. Ma io non accetto questa accusa; compio invece uno sforzo affinché tutto ciò cui hanno voluto spiegarci il Concilio Vaticano II e le conferenze di Medellìn e di Puebla, non soltanto lo abbiamo sulla carta e lo studiamo teoricamente, ma lo viviamo e lo traduciamo in questa conflittuale realtà di predicare come si deve il Vangelo per il nostro popolo… E anche se continua ad essere una voce che grida nel deserto, so che la Chiesa sta facendo lo sforzo di adempiere alla sua missione.
(omelia del 23 marzo 1980)
Sono stato frequentemente minacciato di morte. Come cristiano, non credo nella morte senza resurrezione: se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza jattanza, con la più grande umiltà. Come pastore sono obbligato per mandato divino a dare la vita per coloro che amo, cioè tutti i salvadoregni, anche quelli che mi uccidessero. Se le minacce dovessero compiersi già da adesso offro a Dio il mio sangue per la redenzione e la resurrezione del Salvador. Il martirio è una grazia di Dio che non credo di meritare, ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita che il mio sangue sia semenza di libertà e segno che la speranza si tramuterà ben presto in realtà. La mia morte, se accettata da Dio, sia per la liberazione del mio popolo e come una testimonianza di speranza nel futuro. Lei può dire, se arrivassero ad uccidermi, che io perdono e benedico quelli che lo faranno. Forse, così, si convinceranno di perdere il loro tempo: un vescovo morirà, ma la Chiesa di Dio, che è il popolo, non perirà mai.
(da un’intervista concessa al “Diario de Caracas”)
HANNO DETTO DI LUI
In nome di Dio vi prego, vi scongiuro, vi ordino: non uccidete! Soldati, gettate le armi…
Chi ti ricorda ancora, fratello Romero? Ucciso infinite volte dal loro piombo e dal nostro silenzio.
Ucciso per tutti gli uccisi; neppure uomo, sacerdozio che tutte le vittime riassumi e consacri.
Ucciso perché fatto popolo: ucciso perché facevi cascare le braccia ai poveri armati, più poveri degli stessi uccisi: per questo ancora e sempre ucciso.
Romero, tu sarai sempre ucciso, e mai ci sarà un Etiope che supplichi qualcuno ad avere pietà.
Non ci sarà un potente, mai, che abbia pietà di queste turbe, Signore?
Nessuno che non venga ucciso? Sarà sempre così, Signore?(David Maria Turoldo)
Noi t’invochiamo, vescovo dei poveri, intrepido assertore della giustizia, martire della pace: ottienici dal Signore il dono di mettere la sua Parola al primo posto e aiutaci a intuirne la radicalità e a sostenerne la potenza, anche quando essa ci trascende.
Liberaci dalla tentazione di decurtarla per paura dei potenti, di addomesticarla per riguardo di chi comanda, di svilirla per timore che ci coinvolga.
Non permettere che sulle nostre labbra la Parola di Dio si inquini con i detriti delle ideologie. Ma dacci una mano perché possiamo coraggiosamente incarnarla nella cronaca, nella piccola cronaca personale e comunitaria, e produca così storia di salvezza.
Aiutaci a comprendere che i poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta e il roveto ardente e inconsumabile da cui egli ci parla.
Prega, vescovo Romero, perché la Chiesa di Cristo, per amore loro, non taccia.
Implora lo Spirito perché le rovesci addosso tanta parresia da farle deporre, finalmente, le sottigliezze del linguaggio misurato e farle dire a viso aperto che la corsa alle armi è immorale, che la produzione e il commercio degli strumenti di morte sono un crimine, che gli scudi spaziali sono oltraggio alla miseria dei popoli sterminati dalla fame, che la crescente militarizzazione del territorio è il distorcimento più barbaro della voca-zione naturale dell’ambiente.
Prega, vescovo Romero, perché Pietro che ti ha voluto bene e che due mesi prima della tua morte ti ha incoraggiato ad andare avanti, passi per tutti i luoghi della terra pellegrino di pace e continui audacemente a confermare i fratelli nella fede, nella speranza, nella carità e nella difesa dei diritti umani là dove essi vengono calpestati.
Prega, vescovo Romero, perché tutti i vescovi della terra si facciano banditori della giustizia e operatori di pace, e assumano la nonviolenza come criterio ermeneutico del loro impegno pastorale, ben sapendo che la sicurezza carnale e la prudenza dello spirito non sono grandezze commensurabili tra loro.
Prega, vescovo Romero, per tutti i popoli del terzo e del quarto mondo oppressi dal debito. Facilita, con la tua implorazione presso Dio, la remissione di questi disumani fardelli di schiavitù. Intenerisci il cuore dei faraoni. Accelera i tempi in cui un nuovo ordine economico internazionale liberi il mondo da tutti gli aspiranti al ruolo di Dio. E infine, vescovo Romero, prega per noi qui presenti, perché il Signore ci dia il privilegio di farci prossimo, come te, per tutti coloro che faticano a vivere.
E se la sofferenza per il Regno ci lacererà le carni, fa’ che le stigmate, lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse, siano feritoie attraverso le quali possiamo scorgere fin d’ora cieli nuovi e terre nuove.
(Omelia pronunciata da don Tonino Bello nella Basilica dei Santi Apostoli in Roma, il 23 marzo 1987, nel settimo anniversario del martirio di Oscar Romero)
L’angelo del Signore annunciò il vespro… Il cuore del Salvador segnava 24 di marzo e di agonia. Tu offrivi il pane, il corpo vivo – il triturato corpo del tuo popolo; il suo sangue sparso vittorioso – il sangue contadino del tuo popolo massacrato che deve tingere di vini d’allegria l’aurora impedita!
L’angelo del Signore annunciò nel vespro, e il Verbo si fece morte, un’altra volta, nella tua morte; come si fa morte, ogni giorno, nella carne nuda del tuo popolo.
E si fece vita nuova nella nostra vecchia chiesa! Stiamo un’altra volta sul piede della testimonianza, San Romero d’America Pastore e Martire nostro!
Romero della pace quasi impossibile su questa terra in guerra. Romero in fior violetto della speranza incolume di tutto il continente. Romero della Pasqua Latinoamericana.
Povero Pastore glorioso, assassinato a pagamento, a dollaro, a valuta. Come Gesù, per ordine dell’impero. Povero Pastore glorioso, abbandonato dai tuoi stessi fratelli del pastorale e di messa! (Le curie non potevano comprenderti: nessuna sinagoga ben costituita può comprendere il Cristo).
I tuoi poveri si ti accompagnavano, in disperazione fedele pastore e gregge, allo stesso tempo, della tua missione profetica. Il popolo ti fece santo. La ora del tuo popolo ti consacrò nel Kairós. I poveri t’insegnarono a leggere il Vangelo. Come un fratello ferito da tanta morte sorella, tu sapesti piangere, solo, nell’orto. Sapesti aver paura, come un uomo in combattimento però sapesti dare alla tua parola, libera, il suo suono di campana!
E sapesti bere al doppio calice dell’altare e del popolo, con una sola mano consacrata al servizio. L’America Latina già ti ha posto nella sua gloria del Bernini nella spuma aureola dei suoi mari, nel baldacchino arieggiato delle Ande vigili, nella canzone di tutte le sue strade, nel calvario nuovo di tutte le sue prigioni,di tutte le sue trincee, di tutti i suoi altari…
Nell’ara sicura del cuore insonne dei suoi figli! San Romero d’America Pastore e Martire nostro: nessuno farà tacere la tua ultima omelia!
[Pedro Casaldáliga]
IL MIRACOLO CHE LO FA SANTO
«Io, salva grazie al miracolo del beato Romero»
di Lucia Capuzzi, Avvenire 24 marzo 2018
El Salvador. Cecilia, la signora guarita miracolosamente, il marito Alejandro e i loro tre figli
Mejicanos, cintura urbana di San Salvador. Il sobborgo riempie le pagine dei giornali per la brutalità delle maras, le gang che tengono in ostaggio ampi “pezzi” del Paese. Nella casa di Cecilia Flores e Alejandro Rivas, però, non c’è traccia della tensione esterna. Il vociare allegro dei bambini – Emiliano, Rebeca e Luis Carlos – è il sottofondo costante.
La mattina è una rincorsa. Sveglia all’alba, colazione, poi si parte: i piccoli vanno alla scuola materna, Alejandro lavora come tecnico, Cecilia corre frenetica dietro alle varie incombenze domestiche. «Sto di nuovo bene e ho voglia di fare». Due anni e mezzo fa, la donna è stata a un passo dalla morte. La sua guarigione miracolosa, per intercessione del beato Óscar Arnulfo Romero – come la Santa Sede ha riconosciuto il 6 marzo -, porterà nei prossimi mesi alla canonizzazione dell’arcivescovo-martire. «E dire che prima quasi non conoscevo Monseñor. Il fatto è che ne avevamo sentito parlare molto male. E ci era rimasto un pregiudizio inconscio», aggiunge Alejandro. La coppia – 35 anni lei e 42 lui – appartiene alla generazione cresciuta in bilico tra guerra civile e difficile ricostruzione.
Un’epoca in cui l’arcivescovo, assassinato il 24 marzo 1980 per la sua denuncia profetica degli abusi della dittatura e la difesa dei poveri, è stato oggetto di una diffamazione crudele e sistematica. Perfino dentro la Chiesa non sono mancate le critiche. Con l’avanzare del processo canonico e il riconoscimento del martirio, il clima è mutato. «Il 23 maggio 2015 ho insistito con Cecilia per partecipare alla beatificazione. Non tanto, però, per devozione nei confronti di Monseñor, quanto poiché si trattava di un momento storico», racconta Alejandro. «Ero al quinto mese di una gravidanza molto complicata. Mi sentivo sempre stanca. Alla fine mi sono lasciata convincere…», lo interrompe la moglie. Data l’imminente nascita, entrambi hanno chiesto al nuovo beato di proteggere il piccolo. «E così ha fatto, anche se noi eravamo stati tiepidi verso di lui…», sottolinea Alejandro. I fatti hanno preso una piega imprevista alla fine della successiva estate.
«Avevamo fissato il cesareo il 3 settembre. Ma Cecilia stava male, così il 27 agosto l’ho portata in ospedale. Luis Carlos è nato nei primi istanti del 28 agosto. È stato un momento magico. Non mi sentivo così felice dalla luna di miele…». Poi, però, Cecilia si è aggravata. «I dolori all’addome si sono fatti sempre più forti. Quando la vista si è offuscata, ho capito che me ne stavo andando…». Dopo un’operazione d’urgenza i medici hanno scoperto che la donna aveva contratto una rara malattia, la sindrome di Hellp. «Al termine dell’intervento hanno dovuto indurle il coma. Quando l’ho vista, distesa e immobile, il suo corpo forato da 14 tubi, gli occhi sanguinanti, ho capito che l’avrei persa. Il dottore me l’ha confermato: “Non possiamo fare più niente. Se crede, preghi”. Ero disperato. D’un tratto, verso le 2 del mattino, ho ritrovato per caso la Bibbia di mia nonna Rebeca. Lei sì, era tanto devota di Romero. Da bambino me ne parlava come di un eroe. Di solito non prego con la Bibbia, quella volta, però, l’ho aperta. Tra i fogli c’era un’immagine dell’arcivescovo. D’istinto mi sono rivolto a lui: “Mia nonna mi ha raccontato che avevi un grande amore per il popolo salvadoregno. Ti supplico, intercedi per la mia Cecilia“».
La mattina successiva, in clinica, Alejandro ha scoperto che gli organi interni della moglie avevano ricominciato a dare piccoli segni di funzionamento. «Romero mi aveva ascoltato. Allora ho chiesto agli amici neocatecumenali, di cui Cecilia e io condividiamo il cammino, di unirsi alla mia preghiera», conclude Alejandro. Meno di una settimana dopo, Cecilia Flores è uscita dal coma ed è stata dimessa. «Quando mi hanno raccontato del miracolo sono rimasta incredula. Le testimonianze di quanti avevano pregato per me, però, mi hanno convinta. E sempre loro mi hanno spinto a sottoporre il caso all’ufficio incaricato della canonizzazione. Piano piano, ho cominciato a scoprire davvero Romero: le sue omelie magnifiche, la sua fede, il suo coraggio. Appena saputo del riconoscimento del miracolo, con Alejandro, abbiamo voluto andare a ringraziare Monseñor. E siamo stati sulla tomba. Gli ho chiesto di vegliare sulla mia famiglia. E sul Paese, dilaniato dalla violenza. Lui voleva un futuro di pace per El Salvador. Abbiamo ancora necessità del suo aiuto per costruirlo».