Giovani risorsa del mondo – riflessione tematica
Giovani risorsa del mondo
Diseguaglianza economica, cultura dello scarto, cibo
di padre Giulio Albanese, missionario comboniano, direttore delle riviste della Fondazione Missio
Viviamo in una società globalizzata o addirittura post-globalizzata in cui imperversa la cultura dello spreco e dello scarto. Il primo consiste in un consumo eccessivo, scriteriato e inutile delle risorse; mentre il secondo è sintomatico dell’esclusione sociale che patiscono i ceti meno abbienti. Sta di fatto che sebbene nel corso degli ultimi cinquant’anni l’umanità abbia fatto passi da gigante, oggi nel nostro pianeta Terra ci sono 8 personaggi che detengono la stessa ricchezza, se non di più, della metà della popolazione mondiale. Non solo: l’82% dell’incremento di ricchezza globale registrato nel 2017 è finito nelle casseforti dell’1% più ricca della popolazione, mentre la metà più povera del mondo (3,7 miliardi di persone) ha avuto lo 0%. È quanto emerge da un rapporto pubblicato lo scorso gennaio da Oxfam, in coincidenza con l’annuale World Economic Forum che si svolge ogni anno a Davos. Un dato che, secondo l’autorevole organizzazione umanitaria, racconta da solo l’enorme disuguaglianza di reddito nel nostro pianeta. Si tratta di un fenomeno senza precedenti nella storia dell’umanità innescato dalla finanziarizzazione liberista dell’economia mondiale, fondata sull’azzardo morale. Il sistema è incentrato su investimenti di denaro che generano denaro e poi ancora denaro a non finire. È la cosiddetta “finanza creativa” fatta di “prodotti tossici” dai nomi più svariati – derivati, sub-prime, hedge-funds – quelli che hanno prodotto un’ immensa bolla speculativa con effetti devastanti sulla povera gente. Col risultato che l’economia reale (quella della ricchezza prodotta dal lavoro) è di fatto stata soppiantata da quella finanziaria. Basti pensare che l’import-export di beni e servizi, a livello planetario, è stimato intorno ai 17mila miliardi di dollari l’anno, mentre il mercato valutario ha superato abbondantemente i 5mila miliardi al giorno. Ecco che allora, alla prova dei fatti, nel mondo circola più denaro in quattro giorni sui circuiti finanziari che in un anno nell’economia reale. Questo è il motivo per cui, ad esempio, anche i bilanci delle banche europee sono cresciuti in modo esponenziale in questi ultimi anni. Secondo il rapporto dell’European Systemic Risk Board, nel 2013 il totale delle attività delle suddette banche era già di oltre tre volte il Prodotto interno lordo (Pil) dell’Unione Europea. Si tratta di un’anomalia denunciata da tutti gli organismi internazionali di controllo che indicano proprio nel gigantismo delle banche “too big to fail” (troppo grandi per poter esser lasciate fallire) una delle principali cause della persistente crisi finanziaria globale.
Forse mai come oggi, sarebbe auspicabile promuovere una seria riflessione su questo tema dal punto di vista della teologia morale. Il compianto don Enrico Chiavacci, scomparso cinque anni fa, nella sua opera “Teologia morale e vita economica”, riassumeva l’insegnamento di Gesù in due comandamenti, validi per ogni discepolo: “non accumulare tesori sulla terra” (Cf. Mt 6,19-21) e “dai quello che hai ai poveri” attraverso gesti radicali, concreti e mediazioni materiali, come ad esempio offrendo cibo agli affamati, curando i malati o fornendo ospitalità ai forestieri (Cf. Mt 25,35-36; Mc 6,35-37 ; Mc 5, 35-36 ; Lc 10,35). Questo indirizzo evangelico, è certamente rivoluzionario e, preso alla lettera, fa certamente drizzare i capelli agli economisti del nostro tempo alle dure prese con la congiuntura internazionale e con una visione alquanto totalizzante del profitto a tutti i costi. Da questo impianto concettuale derivano, secondo lo studioso senese, il “divieto di ogni attività economica di tipo esclusivamente speculativo”, come giocare in borsa con la variante della speculazione valutaria, e il “divieto di contratto aleatorio”. Quest’ultimo, Chiavacci lo spiega così: “Ogni forma di azzardo e di rischio di una somma, con il solo scopo di vederla ritornare moltiplicata, senza che ciò implichi attività lavorativa, è pura ricerca di ricchezza ulteriore”.
Ecco che allora anche la filiera del gioco – dal gratta e vinci al casinò – è immorale. Sta di fatto che la logica della cosiddetta massimizzazione del profitto, rischiando peraltro a dismisura, è molto radicata nella nostra cultura postmoderna, anche a livello ecclesiale.
Non v’è dubbio che è particolarmente scottante il dibattito sulla compatibilità dell’uso del denaro rispetto all’evangelizzazione. Nei secoli di storia ecclesiastica è stato affrontato con modalità diverse al punto che si sono delineate due principali correnti pensiero. La prima pressoché incline al pauperismo, nell’accezione naturalmente più nobile e virtuosa da attribuire a questo termine. Una radicalità impressa nel passato soprattutto dagli ordini mendicanti e oggi manifestata da alcune comunità che vede i pericoli di un uso acritico del denaro e sente l’urgenza di farlo entrare nello spazio della povertà evangelica, anche rinunciando ad una certa efficienza tipica della post-modernità. Un altro orientamento, di matrice fortemente occidentale ed efficientista, ricorre invece senza indugio a notevoli risorse finanziarie per realizzare opere/progetti inerenti direttamente o indirettamente con l’evangelizzazione. In questo caso si fa sempre riferimento alla purezza dell’intenzione, evitando di principio quesiti intriganti sull’uso del denaro, sulla visibilità della povertà, sulla possibilità dell’inculturazione del Vangelo attraverso mezzi ricchi. Sull’uso evangelico del denaro, inutile nasconderselo, nessuno pare abbia oggi risposte chiare ed esaurienti rispetto ai sempre nuovi e gravi interrogativi determinati, per esempio, dalla crisi sistemica dei mercati che peraltro ha innescato una spirale recessiva senza precedenti. In effetti, l’avvento del sistema capitalistico ha determinato un graduale passaggio da una concezione morale inerente il “rapporto tra gli uomini” a un’altra legata al “rapporto tra uomini e cose”. Questo mutamento è essenziale per comprendere il nostro tempo e segna il passaggio da un’etica prevalentemente deontologica all’etica utilitaristica. Il dilemma che ci si pone è, allora, sempre lo stesso: desiderio (inteso come progresso/crescita) o soddisfazione (intesa come risposta ai bisogni personali e collettivi)? L’esperienza umana insegna che tra questi due estremi c’è una sorta di dialettica e che dunque non possiamo mai possederli entrambi pienamente. Secondo l’economista ceco Tomáš Sedláček, due sono le strade per ridurre il divario tra desiderio e soddisfazione. Possiamo produrre più beni e incrementare il potere di acquisto della gente. Un indirizzo, questo, che trova la sua sintesi nell’equazione “più e meglio”, la ricetta edonistica scelta sin dal tempo dei Greci e dei Romani. Poi c’è il programma opposto, quello degli antichi stoici. Chiuso nella botte, Diogene era convinto che meno si ha, più si è liberi, una prospettiva fortemente condivisa nel cristianesimo dalla corrente pauperista degli ordini mendicanti. Proprio il diffondersi oggi dell’etica utilitaristica e dunque fortemente pragmatica ha favorito il dominio del business nella riflessione politica e sociale dei Paesi industrializzati, ma anche di quelli emergenti. Il problema di fondo è che, prescindendo da valutazioni ideologiche, vi è sempre più un appiattimento sulle categorie economiche nel dibattito politico, con la conseguente progressiva riduzione delle dimensioni su cui si giudica ogni aspetto della vita e della società.
Se da una parte è giusto che l’economia si concentri sull’efficienza e l’utilità, dall’altra è sbagliato che tutto il resto si riduca all’economia, e quindi a un discorso sull’efficienza e l’utilità. D’altronde è evidente che una società fondata sull’egoismo amorale sprofonda nell’anarchia. Il fatto stesso che oggi il denaro abbia preso il sopravvento sulla dignità della persona umana creata ad immagine e somiglianza di Dio, la dice lunga. Ecco perché il gesuita John Haughey è giunto alla conclusione, più che condivisibile, secondo cui “Noi occidentali leggiamo il Vangelo come se non avessimo soldi e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del Vangelo”. Non è un caso se l’attuale crisi finanziaria “ha rivelato comportamenti di egoismo, di cupidigia collettiva e di accaparramento di beni su grande scala”, come afferma un documento del Pontificio Consiglio Justitia et Pax del 2011. Vogliamo rassegnarci a vedere l’uomo vivere come “homo homini lupus”? Il mistero della predilezione di Gesù per i poveri e la loro centralità nei dinamismi del Regno e della missione, suggerisce, ad ogni chiesa, nel Nord come nel Sud del mondo – anche alla luce dell’illuminato magistero di papa Francesco – di condividere la vita dei poveri usando il denaro per una solidarietà efficace e rispettosa della loro dignità, evitando la dipendenza economica. Le forme concrete di tale solidarietà andranno ripensate a partire dalle nuove situazioni economiche e politiche con le quali il Regno di Dio dovrà misurarsi e, se necessario, scontrarsi anche subendo, come Gesù, persecuzione e morte.
La quasi totalità del denaro per l’evangelizzazione raccolto in Italia è offerto dai fedeli delle nostre parrocchie, di estrazione economica medio-bassa, con uno spirito evangelico incentrato spesso sulla rinuncia, sul nascondimento e la fedeltà nel tempo verso i poveri. È dunque sempre opportuno promuovere una sana pedagogia mettendo in discussione il proprio stile di vita e ribadendo il principio dell’eticità delle proprie azioni, per esempio degli investimenti bancari. Ad esempio, il denaro generato dal commercio di armi o dallo sfruttamento del lavoro minorile o dalla distruzione dell’ambiente è in netta contraddizione con i dettami della solidarietà. I singoli missionari, laici, sacerdoti, vescovi ed enti religiosi, sanno bene che il denaro rappresenta per la missione un rischio e una opportunità : vivendo con coraggio una vita povera nella sequela di Gesù, potranno meglio garantire alla missione quei mezzi che la rendano efficace senza sottrarla allo spazio della povertà evangelica, indispensabile anche per l’inculturazione del Vangelo. Questi criteri sono inevitabilmente ancora generali. Toccherà dunque ad ogni chiesa locale, comunità cristiana, istituto missionario, organismo ecclesiale, lasciarsi guidare da essi in un discernimento comunitario che oggi s’impone più che mai. Solo così sarà possibile avere luce per individuare, di situazione in situazione, scelte sempre più evangeliche, capaci di rendere testimonianza. Un pastore illuminato come Paolo VI sosteneva che la Chiesa non solo dev’essere povera , ma “ deve apparire povera” Insegnamenti di Paolo VI, VIII,1970, Tipografia poliglotta vaticana, p. 674). E qui, lasciatemelo dire, siamo ancora in alto mare!